mercoledì, 12 Marzo, 2025
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La sfida di Sesto S. Giovanni: l’integrazione oggi tra dati e testimonianze

A cura di Silvia Barbato, stagista presso il CESPI nell’anno 2022

“L’integrazione è un’operazione che si fa in due. Non ci si integra da soli. Integrarsi non significa rinunciare alle componenti della propria identità di origine ma adattarle a una nuova vita in cui si dà e si riceve”.
Con questa breve citazione, lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun riassume una delle più grandi sfide del mondo contemporaneo: l’integrazione, la cui natura complessa e ambivalente rende questo concetto di attualità il centro di dibattiti sociali e politici. Oltre a Jelloun sono diversi gli studiosi, ma anche le istituzioni, che hanno dato una definizione di questo processo.
In questo articolo proverò a declinare ed approfondire questo tema sulla base delle conoscenze e delle esperienze che ho assimilato grazie alla mia collaborazione con l’associazione sestese Cespi, la quale non solo si occupa di ricerca su temi internazionali, ma dal 2000 propone iniziative volte all’integrazione dei migranti.

Di queste è un esempio “Cerchiamoci”, progetto finanziato dalla Regione Lombardia tra il 2018 e il 2019 che il Cespi ha realizzato in collaborazione con altre associazioni proponendo una serie di azioni volte sia ai migranti che ai cittadini sestesi, tra cui un laboratorio di narrazione che ha portato alla realizzazione del libro “Mi sento albero nella mia città”, del quale tutte le trecento copie stampate in proprio sono state vendute.

Un altro servizio di grande rilievo che il Cespi offre è l’insegnamento gratuito della lingua italiana per stranieri: qui ho avuto modo di osservare il lavoro svolto per due mesi ed ho successivamente intervistato alcuni degli studenti sul tema dell’integrazione.

Come sopracitato, sono diversi gli attori sociali che hanno definito il complesso processo che è l’integrazione. Tra questi, gli emeriti Francesco Alberoni e Guido Baglioni, in una delle prime ricerche sull’immigrazione in Italia, l’hanno definita “uno scambio reciproco di esperienza umana” e “un inserimento dell’immigrato nella nuova struttura sociale come una parte vitale e funzionale che arricchisce l’insieme”.
Un altro esempio è quello del Decreto del 1998 sulla politica dell’immigrazione in territorio italiano, nel quale si sottolinea che “per integrazione si intende un processo di non discriminazione e di inclusione delle differenze […], che prevenga situazioni di emarginazione, frammentazione e ghettizzazione che minacciano l’equilibrio e la coesione sociale.”

Innumerevoli sono gli esempi degni di nota e ciò che si può concludere da essi è che, a differenza di quanto si riteneva in passato, l’integrazione non può avere successo se frutto di uno sforzo unilaterale, bensì deve esserci una duplice spinta: l’impegno del nuovo
arrivato a negoziare e creare compromessi con la comunità e l’interesse della suddetta a creare uno spazio fisico e sociale per ciascuno. Questo duplice sforzo si contrappone al modello dell’assimilazione, storicamente accolto nel contesto francese, che propone l’abbandono della propria identità culturale per assumere quella dominante. Sebbene questa strategia abbia alte probabilità di successo, risulta disfunzionale nel momento in cui l’altro è costretto a perdere la propria identità per sopravvivenza.
È inoltre fondamentale ricordare che l’integrazione è la tappa finale del lungo viaggio che i migranti devono percorrere: un grande scoglio per i nuovi arrivati è infatti l’ottenimento dell’accettazione legale, e questo passaggio non è sempre di facile attuazione. Nel contesto italiano, l’accoglienza dei migranti si riconduce al decreto-legge 130, datato 2020.
Questo prevede che gli stranieri entrati in modo irregolare nel Paese vengano condotti in centri governativi localizzati per ricevere assistenza sanitaria ed essere identificati. È in questa fase che si distinguono i richiedenti asilo dai cosiddetti migranti economici. Se per i richiedenti asilo è stato creato un complesso sistema di centri di accoglienza con servizi di assistenza multilivello, lo stesso trattamento non è riservato ai migranti economici, che vengono mandati nei centri di permanenza per il rimpatrio o lasciati irregolarmente sul territorio. È a questo punto che molti di loro si dedicano all’ottenimento del permesso di soggiorno, spesso lungo e non privo di ostacoli, come racconta una degli intervistati, Alina: “Una persona mi ha fregato, […] uno che lavora in polizia che mi ha fatto conoscere la mia amica mi ha chiesto 600 euro perfare questa domanda, anzi voleva di più ma io ho detto che non potevo perché ero appena arrivata in Italia ed ero già in crisi economica, ho a casa due bambini[…] Sono vedova, non c’è possibilità. E lui si è dispiaciuto ma ha preso comunque i 600 euro. Si è messo la mano in cuore, diceva che era molto onesto e mi voleva aiutare ma alla fine mi ha fregato. E ha fregato anche altri miei paesani. […] Il permesso non è mai arrivato”.

Per l’elaborazione delle interviste ho fatto riferimento ai parametri Istat contenuti nel rapporto “Vita e percorsi di integrazione degli immigrati in Italia”, datato 2018, nel quale vengono identificate cinque variabili di integrazione che mi sono proposta di approfondire. Le informazioni da me raccolte sulla base di questi parametri vedono come protagonisti un campione eterogeneo per sesso ed età di studenti della scuola di italiano, abitanti, lavoratori o frequentatori della città di Sesto San Giovanni. In particolare, ho intervistato un uomo e quattro donne di età compresa tra i venti e i cinquantacinque anni, con i quali mi sono incontrata secondo le loro disponibilità in luoghi disparati, tra cui oratori e parco giochi, e ai quali ho fatto firmare una liberatoria per la registrazione delle nostre conversazioni e il trattamento dei loro dati. Una volta deciso il campione di intervistati, organizzato gli incontri e fatto firmare la liberatoria ho proceduto con le interviste, che ho eseguito utilizzando una linea guida di domande stilate sulla base dei cinque parametri proposti dall’Istat: la dimensione politica, economica, sociale, culturale e linguistica dell’integrazione.


La prima variabile riguarda il desiderio di diventare cittadini italiani, ma anche la partecipazione alla vita politica e l’interesse per l’attualità; gli intervistati hanno mostrato diversi livelli di interesse in merito all’ottenimento della cittadinanza. Alina e Francesca, ad esempio, hanno espresso due opinioni molto diverse: “Mi piacerebbe farla, ma ci vogliono mi sembra ancora due anni e poi devo fare l’esame, è un po’ complicato ho sentito. È un processo lungo, per me è uguale non sono molto fissata, se me la danno bene, se no uguale.”
(Alina) “Si. Perché io voglio stare qua, non penso di tornare se non per fare visita.” (Francesca)


La seconda variabile riguarda le condizioni lavorative e la percezione di queste da parte dei lavoratori; i cinque studenti da me intervistati si sono soffermati molto su questa variabile approfondendo la loro situazione, in quanto la ricerca di condizioni di vita
migliori, e dunque di condizioni lavorative migliori, è stato un fattore determinante nel decidere di emigrare. Come emerso da molti racconti, in Italia non sempre è facile trovare lavoro rispetto ad altri stati, specialmente se lo si vuole trovare in regola sin dalle prime esperienze, quando il nuovo arrivato ha ancora una scarsa conoscenza della lingua e poca possibilità di affidarsi al passa parola. Un altro importante aspetto da tenere in considerazione consiste nel fatto che emigrare in un nuovo paese spesso significa dover ripartire da zero a prescindere dal percorso di studi e dall’esperienza lavorativa pregressa.
Alina infatti racconta: “Le pulizie sì le faccio non è un problema, […] però mi piacerebbe cambiare. Se vado in Ucraina non faccio questo lavoro, vado in ufficio o qualcosa così, però là non si guadagna quello che si guadagna qua. Io sono laureata in economia, perciò se vado là sono signora, qui sono badante ma là signora, però non mi importa tanto. Prima si, prima vedevo cose che dicevo “mamma mia!”, arriva un nipote dalla donna per cui lavoravo i primi anni e dice: “Nonna, è la tua schiava? Che viene a fare pulizie? Guarda lei non ha fatto bene la porta”. Io pensavo “Mamma mia come sei arrivata ridotta Alina”. Prima regina, adesso mi dicono che non ho lavato bene la porta. Adesso non è importante, […] prima stavo zitta, anche adesso mi servono soldi ma ora se una persona mi dice delle cose una o due volte e continua a non andare bene io vado. Con gli anni ti sparisce la pazienza.”
Inoltre, il luogo di lavoro è un importantissimo snodo per fare incontri e iniziare a piantare le proprie radici nella comunità; per questo può diventare a volte luogo di discriminazioni, ma anche un mezzo per creare rapporti costruttivi e positivi: “Questo mi ha detto una signora, che voleva imparare lo spagnolo. Io facevo la badante da lei e lei mi ha detto: “Io voglio imparare lo spagnolo, tu parli con me lo spagnolo, dopo io te lo dico in italiano così io ti insegno la mia lingua e tu a me”. Così dopo mi diceva “Hola!”. Sempre mi diceva le cose come buongiorno, buenos dìas, tutte queste cose.” (Francesca)
Proprio grazie alla ricchezza di sfide che lancia e alle opportunità che offre, il lavoro resta uno dei mezzi fondamentali per entrare a far parte della comunità e crearsi uno spazio, concreto e identitario, nella società.


La terza variabile include la partecipazione alla vita della comunità, il rispetto e le discriminazioni; in questo caso, la maggior parte degli intervistati hanno menzionato le loro esperienze in merito, con casi di discriminazioni più o meno gravi e più o meno consapevoli, ma sempre sottolineando come queste esperienze non siano determinanti nel loro percorso di vita in Italia, poiché molte di più sono le persone amichevoli, che l fanno sentire accolti. Particolarmente interessanti sono state le testimonianze di Maha e Francesca: “Ho visto persone tanto gentili, tanto tranquille, poi ci sono persone però che non sono così, parli e non gli piacciono gli egiziani, gli stranieri. Non sono gentili. Sul pullman parli e ti dicono: -Perché tu sei qua? Questo è il nostro Paese, non il tuo.- E mi ha spinto sul pullman. – Perché sei qua, perché metti il velo?-. Io ho pianto tanto per questa cosa. Mi è successa due volte, una volta sul pullman e l’altra una signora. Ma ci sono anche persone bellissime, quando hanno vistome e i miei bambini vogliono parlare con me, giocare con i miei figli a scuola o anche ai giardinetti. Io voglio che sia così”. (Maha)
La signora da cui lavoro a Monza, ad esempio, era una signora molto brava che non mi diceva mai cose spiacevoli; invece, una vicina di questa signora le diceva che io ero una straniera, allora lei ha litigato con la signora e le ha detto: “Ma lei è una ragazza, ha 19 anni, è molto giovane e capisce tutto quello che dici, capisce solo che non riesce a parlare molto bene.” Io l’ho detto a lei: “Capisco tutto però parlare mi costa”. E lei mi ha detto: “Tranquilla cara, qua impariamo insieme.”. Mi ha aiutata a imparare l’italiano, parlando anche in dialetto e mi ha fatto imparare delle parole.” (Francesca)

La quarta variabile si riferisce all’adesione alla cultura di arrivo tramite aspetti come il consumo di cibo e dei media; tutti gli intervistati hanno sottolineato il loro apprezzamento per l’eccellenza della cucina italiana e molti di loro hanno raccontato di aver introdotto nella loro dieta quotidiana pietanze come pizza, lasagne, pasta e così via. Tuttavia, più interessante dal punto di vista culturale è l’utilizzo di mezzi di informazione come la televisione, non solo come mera forma di intrattenimento, bensì come tramite per conoscere e sentirsi partecipi del Paese di arrivo. Ad esempio, Eyasu racconta di essere appassionato dei programmi della conduttrice Maria De Filippi, personaggio che incarna il “buon cuore” italiano nell’immaginario collettivo e che all’interno dei suoi programmi mostra dinamiche relazionali di vario genere, le quali possono facilitare la conoscenza e categorizzazione dello spirito italiano per lo spettatore. Alina e Francesca, invece, raccontano di come la televisione sia un mezzo utile per allenare la comprensione della lingua. “Sai anche perché guardo i film? Per imparare la lingua italiana, mi piace aprire e vedere il mio film. Mi piace, quando sono stressata io guardo e mi rilasso. Se no io cerco di ascoltare e memorizzare però alcuni momenti…con “abbiamo, siamo” […] quando parlo ci devo pensare tanto. Non mi viene naturale come mi piacerebbe.” (Alina)
“Guardo il canale 40, dove ci sono le cose per i bambini perché nel mio Paese lii vedevo quindi mi ricordo, allora guardando anche in italiano mi ricordo e imparo le parole che dicono. Per quello lo guardo.” (Francesca)


Infine, l’ultima variabile riguarda la conoscenza e l’uso della lingua italiana. In questo senso, molti degli intervistati hanno sottolineato quanto sia fondamentale sapere la lingua per avere prospettive lavorative più ampie, oltre che per sentirsi parte integrante del
Paese; Francesca infatti sostiene: “Non posso dire che mi sento italiana se faccio fatica a parlare la lingua. Quando imparo tutto
credo che mi sentirò più italiana.”
La comprensione e soprattutto l’uso dell’italiano sembrano anche essere una grande fonte di insicurezza per alcuni intervistati. Ad esempio, Maha mi ha chiesto qualche minuto per leggere le domande prima di iniziare, sottolineando poi che non fossero semplici e che era un po’ agitata; Alina, invece, ha espresso il desiderio di essere corretta da me qualora facesse degli errori e mi ha chiesto più volte cosa ne pensassi delle sue competenze nel dialogo. Proprio per l’importanza della conoscenza della lingua a livello emotivo, lavorativo e pratico, la maggior parte degli intervistati hanno aderito ai corsi di italiano proposti dal Cespi sin dai primi mesi del loro soggiorno in Italia, e questo ambiente è stato per molti di loro anche un’importantissima fonte di socializzazione in aggiunta al contesto lavorativo. Inoltre, molti degli intervistati si sono impegnati in autonomia per allenare la loro comprensione dell’italiano utilizzando applicazioni sul cellulare, video su YouTube, programmi televisivi, quiz della patente, conversazioni quotidiane e così via. Raggiungere un buon livello di conoscenza e uso della lingua è un processo lungo che richiede costanza, pazienza e che non è facile da portare avanti,
specialmente per quelle persone che, una volta arrivate in Italia, devono riconfigurare completamente la propria vita. Tuttavia, come Eyasu ricorda, è lo sforzo reciproco a capirsi ciò che fa la differenza: “Io sono stato in due Paesi, in Inghilterra quando parli inglese se non lo parli bene non ti ascoltano,fanno finta di non capire, in realtà capiscono ma fanno finta di no perché non parli bene. Invece in Italia quando parlo, si capisce o non si capisce, io adesso non proprio parla bene, però quando sono col mio capo, con le persone al lavoro, mi rispettano. -Cos’hai detto? Ecco adesso ho capito-, così. In Italia è bello che funzioni così, e non lo dico per la tua intervista o per te, no no,questa è la verità”.

Al fine di leggere queste testimonianze nel modo più completo possibile è importante ricordare la particolare storia della città di Sesto San Giovanni, che a partire dal 1900 si è sempre più arricchita grazie a svariate ondate migratorie. Nel XX secolo è stata la rapida industrializzazione con impianti siderurgici e metalmeccanici a portare nella città un numero sempre maggiore di abitanti e lavoratori, provenienti inizialmente soprattutto dalle zone più inattive del Nord Italia e dal Sud. In questo periodo era stato soprattutto il movimento operaio, insieme a un’attenta amministrazione comunale e a un forte senso di solidarietà diffuso nella comunità, a realizzare un vero e proprio processo di inclusione sociale integrando le diverse culture di cui i migranti erano portatori e creando così un nuovo senso di cittadinanza condivisa. È stato poi negli anni ‘80 che si è verificato un processo di deindustrializzazione comune a tutta l’Europa, il quale ha determinato l’arresto delle migrazioni interne e con esse la perdita di abitanti e posti di lavoro. Oggi il panorama sociale è completamente mutato, l’impulso solidale è molto meno presente e le motivazioni e i soggetti delle migrazioni sono cambiati. La globalizzazione e ’immaginario costruito dai mass media rendono sempre più evidente la diversificazione tra un Sud del mondo, povero e privo di prospettive, e un Nord ricco di opportunità e moderno – ma anche spesso eccessivamente idealizzato e stereotipato – che attrae fasce d’età sempre più giovani. È in questo contesto che i nuovi migranti mettono di nuovo alla prova l’identità della città di Sesto e la sua capacità di ripensare a un modello di integrazione non più giocato nelle fabbriche ma in scuole, oratori e associazioni di cui il Cespi è un esempio. Allora come oggi la sfida resta ardua, in un contesto in cui le differenze culturali vengono vissute come una minaccia e i concetti di integrazione e assimilazione si mischiano nel senso comune in un grande calderone di stereotipi che vengono spesso alimentati da forze politiche conservatrici. Tuttavia, è sufficiente osservare i numeri per smascherare questi stereotipi: nel 2010 il numero di nascite totale all’ospedale di Sesto San Giovanni ha visto i neonati di coppie straniere ammontare al 51% del totale, a prova del fatto che la componente straniera contrasta la tendenza dell’intero Paese alla scarsa dinamicità. Questa vitalità della componente straniera è anche dimostrata dall’imprenditorialità migrante, che secondo un rapporto della camera di commercio di Milano ha presentato tra il 2005 e il 2008 un aumento del 33% rispetto alla stasi milanese. Questi dati sono un importante indicatore di come i migranti abbiano un impatto enorme sulla nostra società e possano essere una grande risorsa per il Paese, ma al contempo è necessario ricordare che dietro i numeri ci sono persone reali che attraversano percorsi tortuosi per ottenere una vita migliore in Italia. È proprio qui che la maggior parte degli intervistati ha sviluppato, negli anni, un certo senso di appartenenza, scoprendo l’altro e riscoprendo se stessi nella costruzione di un nuovo senso di identità e di una nuova vita. Per approfondire la costruzione di questo senso di appartenenza e di questa nuova identità, oltre alle domande da me stilate sulla base dei parametri Istat, ho deciso di chiedere in modo diretto agli intervistati se si sentissero o meno parte dell’Italia, e se pensassero che la loro presenza potesse essere un arricchimento per tutti noi. Tutte le risposte ricevute sono state estremamente preziose, ma sono due le risposte che a mio parere sintetizzano ciò che integrare e integrarsi, significa: “Io non sento di essere straniera in tante cose. Nella società so che sono straniera ma le mie abitudini sono simili, non c’è problema a comunicare con gli italiani, sono abituata, mi sento ok. Quando capita che non mangio prosciutto ecc. perché sono musulmana o non bevo birra, c’è rispetto. Non c’è problema. Però in Egitto metto il velo, invece in Italia no perché io penso che in Italia questo è un barriera. Sono straniera, ho anche messo questa, oh! Non sono vista bene. Quando vedo che c’è un pregiudizio per i musulmani, hanno paura, pensano che siamo persone cattive o violente allora io non metto il velo. Lo faccio perché così non sono strana per le altre persone, perché la tua figura è un messaggio per gli altri. Non c’è comfort quando senti una barriera con un’altra persona, io devo rispettare le altre persone perché io vivo nel loro Paese.” (Amy)
“Penso di essere un arricchimento per l’Italia perché io voglio lavorare, voglio uscire, parlare con le persone, posso aiutare le altre persone, posso aiutare le mie amiche per parlare meglio italiano, fare la spesa, andare all’ospedale. Voglio partecipare.” (Maha)

Colgo infine l’occasione per ringraziare Vittorio Gioiello, direttore del Cespi, e le sue collaboratrici Marilena Vimercati, Silvia Barbanti, Stefania Granata, Gladis Lama Ceschet, Giovanna Andreoni e Anna Anelli che mi hanno accolta e supportata durante questo percorso, ma soprattutto arricchita ed ispirata con la loro profonda dedizione nel prestarsi alla causa di cui il Cespi si occupa.

Per leggere le interviste cliccare QUI

BIBLIOGRAFIA

A. Silvani, “I nuovi abitanti dell’Hinterland. Storie di migranti a Sesto San Giovanni”, Milano, ATI Editore, 2012

Centro Studi Problemi Internazionali, “Scuola di italiano” https://www.cespi.org/scuola-di-italiano/

Centro Studi Problemi Internazionali, “Progetto cerchiamoci”, https://www.cespi.org/2019/01/15/progetto-cerchiamoci/

E. Cellini, R. Fideli, «Gli indicatori di integrazione degli immigrati in Italia. Alcune riflessioni concettuali e di metodo», 2002, Quaderni di Sociologia [Online], 30 novembre 2015, [in rete] http://journals.openedition.org/qds/1345 (20 maggio 2022)

F. Alberoni, G. Baglioni, “L’integrazione dell’immigrato nella società industriale”, Bologna, Il Mulino, 1965

Istat, “Vita e percorsi di integrazione degli immigrati in Italia”, Roma, 2018

Openpolis, “L’integrazione economica dei migranti in Italia”, 11 giugno 2021, [in rete] https://www.openpolis.it/lintegrazione-economica-dei-migranti-in-italia/ (15 giugno 2022)

S. Barbanti, W. Ferrario, C. Palermo, M. Vimercati, “Mi sento albero nella mia città. Cittadine e cittadini raccontano Sesto” https://www.cespi.org/2024/12/04/mi-sento-albero-nella-mia-citta/

T. B. Jelloun, “Il razzismo spiegato a mia figlia. I nuovi razzismi in Italia”, Milano, Bompiani. 2005

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